Corriere Fiorentino, 25 ottobre 2013
“Perché non vuoi essere grande e ti accontenti di essere bravino?”. Non smette mai di recitare, Gabriele Lavia, nemmeno quando parla con i suoi attori e collaboratori. Certo, è il suo mestiere, e alternando i panni di attore e regista, non manca mai di mostrare ai suoi come interpretare le scene. “Non devi copiare la mia intonazione! Come faccio a farti sentire quello che ho dentro?”. Però poi il suo show continua, e anche quando dice cose assolutamente normali sembra che stia recitando una scena del Macbeth. “L’intonazione è l’ultimo stadio sensibile di un qualcosa che è metafisica!”, declama, inanellando svariate di quelle parole difficili che ama particolarmente. “Il pubblico non le capisce – spiega – ma poi ci si abitua”.
A settant’anni compiuti da maestro indiscusso del teatro italiano, si permette volentieri qualcuna di queste boutades, approfittando del pubblico che siede in silenzio nelle ultime file della Pergola. Sono iniziate infatti ieri le prove aperte dei Pilastri della Società di Ibsen, in scena in prima nazionale dal 5 all’11 novembre, e continueranno nel corso della prossima settimana, mentre il 7 novembre alle 18 ci sarà un incontro pubblico con il maestro e la sua compagnia (maggiori info sul sito del teatro). Spesso le prove teatrali sono fatte di tempi morti, di consigli agli interpreti, di indicazioni precise per i tecnici. C’è chi, come Peter Brook, non ammette nessuno alle sue sessioni di lavoro, e per parlare agli attori sussurra, per non rompere nemmeno con i suoi più stretti collaboratori, quella profonda intimità. Ma ogni maestro ha il suo approccio e il suo metodo, e Lavia trasforma queste prove aperte in una sorta di one man show, una gigantesca lezione di teatro che è in già in sé una godibile performance da grande attore.
In un immenso salone dalle tinte rosse, affollato di tappeti, divani e poltrone, incarna il Console Bernick, un politico apparentemente integerrimo, che viene però costretto a calare la maschera mostrando il suo doppio volto. In passato ha sedotto e abbandonato una ragazza, lasciandola morire nel suo dolore, per poi far ricadere la colpa su suo cognato. “In Norvegia il titolo di Console veniva dato a chi si distingueva nel fare del bene alle persone – spiega – Bernick ha fondato tutto il suo successo su una grande menzogna che nel corso degli anni si è ingigantita. È proprio questa la tesi di Ibsen: non si può fare politica al di fuori della menzogna. Quando nel 1877 scriveva questo testo, auspicava l’avvento della Verità e della Libertà in politica, ma noi oggi sappiamo che questo tempo è ancora lontano. Ci sono tanti paralleli fra le parole di Ibsen e la nostra cronaca recentissima. Penso anche a Berlusconi, che in qualche modo è diventato il paradigma di questa società“. Per Ibsen quei Pilastri che devono sostenere il mondo sono essenzialmente la Libertà e la Verità, ma un terzo cardine poggia sul ruolo della donna. “Scrive in un periodo in cui il movimento femminista sta cominciando a muoversi con forza e così diventa il drammaturgo e il poeta della donna nuova che sta per sorgere in Europa. È il vero grande autore femminista”.
Non sono in molti ad aver portato in scena questo dramma in Italia. L’ultima volta risala a cinquant’anni fa, quando la regia era di Orazio Costa, l’artista caro alla Pergola, dove fondò il suo Centro di Avviamento all’Espressione. “Marco Giorgetti (direttore del teatro, e in passato allievo e assistente di Costa, ndr) mi ha portato il copione: in quello spettacolo aveva coinvolto Tino Buazzelli, Anna Proclemer, Nino Manfredi, Bice Valori, tutti attori che hanno fatto la storia del teatro. Non so se è un caso che ora io venga a Firenze con questo nuovo allestimento del testo o se sia piuttosto la necessità del caso”. E così si fa sempre più stretto il legame di Lavia col teatro della Pergola: “Mi è capitato molto spesso di provare e di debuttare qui – dice lui – è uno dei teatri che amo di più. Mi sento a casa, ormai nel quartiere mi vogliono bene tutti: dai baristi al farmacista, fino al verduraio. Da una vita vengo sempre nello stesso hotel, il Monna Lisa, proprio accanto al teatro”.
Ed è più che possibile che dal 1 gennaio Lavia sbarchi a Firenze, come successore di Maurizio Scaparro, alla guida dei progetti internazionali della Pergola. Se Scaparro concluderà il suo mandato e partirà per Parigi, Lavia terminerà lo stesso giorno la sua direzione al teatro di Roma, e potrebbe salire in Toscana. Si parla anche di un possibile cammino del teatro verso il riconoscimento di Stabile Privato, e una figura di rilievo potrebbe favorire il passaggio. Ma “è ancora prematuro”, risponde lui, senza però smentire, né perdere l’occasione per cantare il suo amore per la città. “Ogni volta che viaggio per il mondo come regista d’opera, dalla Cina al Giappone, scopro che il sogno di tutti gli abitanti del pianeta è di visitare tre città: Roma, Firenze e Venezia. Tutte le altre grandi capitali, da Londra a Parigi a New York, vengono molto dopo”.
Non solo, Firenze, reduce dalla scuola di Costa e dalla Bottega di Gassman, per Lavia avrebbe la “vocazione ad ospitare una grande scuola teatrale, anzi, una schola, una vera e propria università del teatro. Firenze ha inventato l’Uomo così come lo conosciamo oggi, qui è nato l’Umanesimo. Ora in Italia ci sono molte scuole ma manca un centro di grande qualità e severità. Il teatro è un lavoro difficilissimo, quello dell’attore è un lavoro impossibile: si può suonare bene il violino, il pianoforte, ma per recitare si deve mettere in opera il corpo. Il lavoro dell’attore è fare corpo usando la parola, fare nel senso del ποιέω (poieo) greco. Ma forse sto diventando di nuovo troppo difficile…”. Non se ne libera, il maestro, delle parole complicate. Anzi se ne compiace. E semmai il “prematuro” maturerà, e Lavia sbarcherà veramente all’ombra della Cupola, magari questa schola sarebbe realtà. Magari. Basta che non si torni a parlare latino.