Corriere Fiorentino (Corriere della Sera/Firenze), 29 gennaio 2014
C’è una musica melanconica a scandire le storie, spesso mai sentite, dell’esilio degli italiani dall’Istria nel 1947. Come quella di Norma, che pedalava per la sua città in cerca di materiale per la tesi di laurea prima di essere prelevata dai titini, o quella di Marinella, che morì vicino a Trieste, per gli stenti sofferti nel campo profughi. Vicende tragiche ma ammorbidite dalla nuova formula del “musical civile“, inventata da Simone Cristicchi per questo suo Magazzino 18, che giovedì 30 apre la stagione del teatro Aurora di Scandicci, realizzata da Fondazione Toscana Spettacolo e Scandiccicultura.
Diretto dal regista Antonio Calenda, l’artista è stato affiancato nella scrittura da Jan Bernas, autore di Ci chiamavano Fascisti. Eravamo italiani (Mursia, 2010). Ha così creato questo “format originale che contamina il musical al teatro civile” spiega, annunciando già di progettare “altri spettacoli con la stessa formula”. Intanto è riuscito a raccontare “una pagina strappata dalla storia” con uno spettacolo che ti fa piangere ma ti sa anche strappare una risata, ti coccola con la musica per poi spiegare con chiarezza e semplicità i vari passaggi dalla Storia.
Non manca una carta geografica – proiettata – per ricordare l’annessione dell’Istria all’Italia dopo la Prima Guerra Mondiale e l’oppressione fascista nei confronti di slavi e croati. Si arriva poi al terrore di Tito, con i prelievi lampo e l’uccisione nelle foibe. “Fino a poco tempo fa nel dizionario venivano descritte semplicemente come ’Cavità carsiche’” dice uno dei tanti personaggi interpretati dall’artista nello spettacolo “ma cosa pensano, che nella foiba, ci sono caduto da solo?”. E poi c’è il rientro in Italia dei profughi, con le tante malversazioni subite da chi li considerava arbitrariamente fascisti.
Il punto di partenza è un magazzino del porto di Trieste, il numero 18. “Si trova nel Porto Vecchio, e contiene i mobili, le masserizie e gli oggetti di vita quotidiana degli esuli dell’Istria ‒ spiega Cristicchi – si portavano dietro tutto quello che potevano, nella speranza di potersi costruire una nuova vita in Italia, oppure di poter tornare un giorno dov’erano nati. E così il contenuto di intere case e quartieri è stato imballato, schedato, spedito e lasciato lì, in attesa di poterlo andare a riprendere”. Vediamo allora il signor Persichetti, un archivista romano un po’ ignorantello impiegato al Ministero, che si ritrova a schedare il materiale del magazzino. Non sa niente della storia dell’Istria, pensa che quella Via Giuliano Dalmata da dove passa sempre con l’autobus si riferisca a un qualche personaggio del passato, non s’immagina che indichi una popolazione.
E mentre Persichetti compie le sue inchieste, Cristicchi cambia varie vesti – narratore, cantante, esule, etc. – e sullo sfondo scorrono video originali dell’Istituto Luce. Vediamo Pola che si svuota dei suoi abitanti e sentiamo il rumore dei chiodi con cui gli italiani imballavano velocemente le loro cose. “È impensabile immaginare Napoli senza napoletani o Firenze senza fiorentini – commenta l’artista dal palco – eppure lì è successo, circa settant’anni fa”. Ci sono le immagini del piroscafo Toscana, che riportò molti italiani in patria fino al maggio del ’47. E c’è posto anche per stragi dimenticate, come quella di Vergarolla, con quell’esplosione sulla spiaggia che uccise almeno 80 persone fra cui molti bambini, accorsi per le gare di nuoto.
Non manca la storica confessione – riportata da Petacco nel suo Esuli ‒ di Milovan Gilas, che molti anni dopo disse di aver fatto “pressioni d’ogni genere” per indurre gli italiani ad andare via dalla regione: “si trattava di dimostrare alla commissione alleata che quelle terre erano jugoslave e non italiane“. Fortemente accusato da varie parti della sinistra, Cristicchi spiega: “è vero, sono di parte, dalla parte degli ultimi, di chi è stato inghiottito dalla Storia”. Ma alla fine di ogni rappresentazione gli applausi, le standing-ovation e le lacrime degli spettatori sono il segno di un lavoro che non fa che raccontare, con un altissimo livello artistico, una storia dimenticata.