Corriere Fiorentino, 9 febbraio 2014
Un mantello interamente fatto di rose al fianco di costumi settecenteschi contaminati con indumenti sado-maso. Per il suo Don Giovanni, in scena da martedì a domenica alla Pergola (feriali ore 20.45, festivi ore 15.45), Filippo Timi mischia le carte e contamina le fonti. «Ho creato una sorta di barocco postmoderno — dice l’attore e regista, che firma anche l’adattamento del testo — accostando più stili possibili. Ho usato quindi i miei riferimenti, stando attento a non creare il caos, ma cercando delle assonanze fra le citazioni. Nella colonna sonora spazio alla musica barocca ma anche ai Queen, e non solo: ho chiesto al costumista, Fabio Zambernardi, di inventare e staccarsi dalla tradizione».
Quei colori, quegli abiti e quel gusto pop riecheggiano certi film di Sofia Coppola, ma per lui «forse è un caso, ho invece rivisto molti film di Kubrick: il pavimento è un’enorme piattaforma retroilluminata che ricorda 2001 Odissea nello spazio, mentre altri elementi rimandano ad Arancia meccanica».
Le stesse contaminazioni riguardano la riscrittura del testo. «La traccia più forte è quella del libretto di Da Ponte per l’opera di Mozart, ma mi sono ispirato anche a Molière e ad alcune delle altre versioni del mito». Fonti da cui poi si è discostato notevolmente. «Apro lo spettacolo con Don Giovanni che si fa una pera di eroina per provocarsi un’overdose: un tentato suicidio. Volevo raccontare la rincorsa sfrenata di un piacere che non ti riempie mai».
Così per dare struttura alla sua drammaturgia ha scelto un cambio di prospettiva. «La storia non è più don-giovanni-centrica, ma ogni personaggio ha il suo monologo di passaggio. Per tutti l’incontro con il protagonista è certamente devastante, ma è anche salvifico, perché li costringe a confrontarsi con un desiderio profondo, con un qualcosa di sconosciuto. In scena si crea quindi un ventaglio umano che cerca di abbracciare tutto il mondo».
Una riflessione particolare riguarda Leporello, da sempre personaggio chiave dell’opera, che non a caso fu interpretato dallo stesso Molière. «Per me è l’antitesi di Don Giovanni: il servo è colui che, per l’etimologia della parola, non si spende, è quindi l’opposto del protagonista, colui che si dà, che non si risparmia».
Fra il serio e il faceto dice che «è Don Giovanni che ha scelto me», visto che il progetto è nato quasi per caso. «Avevo una gran voglia di cambiare, dopo il mio spettacolo Favola, dove interpretavo una donna degli anni Cinquanta, molto attaccata alla famiglia, a cui capitano moltissime avventure. Dopo essere stato ogni sera per due ore e mezzo sui tacchi a spillo, cercavo qualcosa di completamente diverso».
Aveva quindi iniziato a scrivere un testo sul tema del male, concentrandosi su personaggi come Satana e Hitler, quando scattò la scintilla. «Mi chiesero un’intervista su Don Giovanni in occasione di una rappresentazione alla Scala. Rilessi il libretto e mi colpì moltissimo: Don Giovanni incarnava il male contemporaneo, il male di chi non riesce ad essere mai sazio, il male che affascina, che muore in se stesso, che sbeffeggia la morte».
Ecco allora che il progetto ha preso la sua strada per poi registrare sold out in molte piazze d’Italia. Un successo che è molto gratificante, ma che ti responsabilizza. Ti spinge ad essere sempre attento e concentrato, per diventare sempre più bravo. Lo spettacolo dura quasi tre ore ed è molto impegnativo. Ogni sera improvvisiamo e creiamo anche delle cose completamente nuove». In questo periodo, dunque, investe tutte le sue energie sullo spettacolo che vedremo a Firenze da martedì prossimo e che proseguirà in una lunga tournée che continuerà per oltre un mese. Non pensa ad altro e rimanda al futuro altri progetti.
In viaggio per la Toscana, ripensa alla sua formazione, avvenuta al centro teatrale di Pontedera, con la guida di Dario Marconcini. «Avevo vent’anni e lasciavo per la prima volta il mio paese, (lui è di Perugia ndr.) Per fortuna il passaggio, con un posto piccolo come Pontedera, non fu traumatico. Ho avuto l’opportunità di crescere in un centro dov’erano passati i più grandi: da Grotowski a Barba. Un’esperienza bellissima».
Gherardo Vitali Rosati
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