Intervista a Silvia Paoli, a Tenerife con Figaro

silvia-paoliCorriere Fiorentino, 20 ottobre 2015

Quando aveva undici anni, faceva “la regista di strada” a Campi Bisenzio. “Raccoglievo tutti i bambini del quartiere, la mamma di una mia amica realizzava i costumi, e dopo settimane di prove, a giugno, portavamo in scena balletti, spettacoli sui pattini o canzoni in playback”. Oggi, a venticinque anni di distanza, Silvia Paoli ci risponde dalle Canarie – “Si vede l’oceano là dietro?”. Sta lavorando nell’avveniristico Auditorium disegnato da Calatrava, un complesso di curve bianche che si affaccia sul mare di Tenerife. “Peccato che non ci sia nemmeno una finestra, fa caldissimo e bisogna tenere sempre l’aria condizionata. Per i cantanti è un incubo”. Ma l’isola, per lei, è all’altezza della sua fama. “È stupenda, il Nord, dove sono io, è ancora incontaminato e selvaggio, peccato per il Sud, che ormai sembra un mix fra Rimini e Las Vegas: hanno costruito ovunque”.

Lei è a Santa Cruz de Tenerife, la capitale, e sta allestendo Le nozze di Figaro, in scena all’Auditorium dal 22 al 25 ottobre e in arrivo anche al Comunale di Bologna, dal 26 maggio al 1 giugno. “È un’opera studio, con un cast giovanissimo di cinque diverse nazionalità. Con loro Le nozze hanno trovato una freschezza che non mi sarei mai aspettata”. La vera forza dell’opera – secondo la Paoli – sono le donne, e soprattutto la Contessa d’Almaviva: è grazie al suo aiuto che la giovane Susanna riesce a frenare i bollori del Conte e a mantenersi fedele al suo Figaro. “Si sarebbe potuta chiamare La conversione della Contessa – scherza – è l’unico personaggio che ha un reale sviluppo drammaturgico. All’inizio è solo legata al ricordo, ma poi decide di agire. Ed è veramente innovativa l’amicizia che ha con Susanna, un’amicizia al femminile che travalica le barriere sociali”. L’anno scorso, proprio a Tenerife, aveva conquistato il pubblico ambientando la sua Cenerentola in un reality show. “Ma qui non c’è niente da inventare, si deve lavorare sulle dinamiche fra i personaggi e approfondirne le sfaccettature. Ho immaginato un non tempo: potremmo essere nel Settecento, negli anni Cinquanta, o ai nostri giorni”.

Al suo ritorno in Italia inizierà a preparare Turandot, che andrà in scena al teatro Sociale di Como a febbraio, nel contesto di Opera Domani, il progetto che mira ad avvicinare i più piccoli alla lirica. L’ha sottotitolata La principessa falena: “È come se la protagonista fosse invischiata in un bozzolo, incapace di uscire dal suo ruolo di vendicatrice”. Perché, si sa, ha giurato di sposare chi riuscirà a risolvere i tre enigmi, ma decapiterà tutti i pretendenti che falliranno nell’impresa. “Nella mia opera sono tutti dei grandi insetti, l’intera città di Pechino è disumanizzata, e segue questo folle rito da anni. Gli unici che si staccano dal coro sono i tre nuovi arrivati: Calaf, suo padre Timur e la schiava Liù”.

Ora, per Silvia, sembra andare tutto bene. Vive in una colonica nei dintorni di San Casciano, insieme al suo compagno, musicista. “No, no, niente classica: è un cantautore. Insieme ci divertiamo moltissimo”. Nel tempo libero si dedica all’uncinetto e ai lavoretti a maglia – “mi rilassa” – o alle cene con gli amici. Ma non è sempre stato facile. “Ho fatto per anni la cameriera, e poi traslochi e pulizia scale”. Anche se subito dopo la scuola, la Paolo Grassi di Milano, l’aveva già presa Peter Stein per fare Pentesilea, “ma dopo il vuoto”. Un vuoto intervallato da ingaggi importanti: con artisti come Paolo Rossi, Maurizio Schmidt o Rem & Cap. Fra le altre cose, anche il musical Klezmer Music but nothing, con Giora Feidman, il clarinettista di Schindler List.

Dentro di sé, si sente un’attrice. Ha anche fatto degli incisivi lavori da sola, come Bucce o Livia, ma sembra che la lirica stia prendendo il sopravvento. È arrivata per caso, quando Damiano Michieletto, regista star dell’opera e suo compagno di studi alla Paolo Grassi, l’ha chiamata come assistente. “Era dieci anni fa, per il Dissoluto punito: da allora abbiamo fatto moltissime opere insieme”. In lui ha trovato un maestro: “nonostante siamo coetanei, sento di imparare moltissimo. È davvero geniale, riesce sempre a sorprendermi, è un piacere vederlo lavorare”. Più che con Stein? “Sì”- risponde decisa, ma poi ci ripensa – “forse perché ho un ruolo diverso, con Peter ero attrice, qui sono assistente”. Il lavoro più bello è stato a Pesaro, per la Gazza Ladra, che ha valso a Michieletto il premio Abbiati: “all’inizio non la voleva fare, poi è nato un capolavoro. È riuscito a ribaltare la storia, immaginando che la gazza nascesse dalla fantasia di una bambina che non riesce a dormire. Geniale”.

Ma questo amore incondizionato per quell’opera è anche legato anche a un altro episodio. “Un giorno venne a seguire le prove Alejandro Abrante. Al tempo faceva l’agente, ma mi disse: ‘quando avrò un teatro, ti chiamerò come regista’. Oggi, dirige l’Auditorium di Tenerife, e ha mantenuto la promessa”.

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