Il fattore Shakespeare. Intervista a Peter Stein

Giovedì 16 Giugno 2016, Corriere Fiorentino

«Ripeti questa battuta! Non si capisce quello che dici». Dopo un mese di laboratorio con attori under 35, Peter Stein non si stanca di fermarsi su ogni parola del testo. «Perché parli verso il pavimento? Come faccio a sentire la tua voce?». Al Fabbricone di Prato si è concluso il workshop, organizzato dal Metastasio, che porterà alla produzione del Riccardo II di Shakespeare. In scena, dall’estate 2017, ci saranno anche una parte dei corsisti di Prato, al fianco di Maddalena Crippa e di altri attori da definire.

«È da 45 anni che penso a questo testo — ci racconta Stein — mi appassionava moltissimo il tema: la destituzione di un re convinto di regnare per diritto divino». Nel 1399, Riccardo II d’Inghilterra fu infatti incarcerato per volere di suo cugino, Enrico di Bolingbroke, che poi prese il suo posto col titolo di Enrico IV. Due secoli dopo (1595), Shakespeare ripercorreva con una certa precisione gli eventi, aprendo una tetralogia che sarebbe continuata con il dramma in due parti Enrico IV e con l’Enrico V. Nel ruolo del titolo, dunque, Maddalena Crippa — moglie del regista — in abiti maschili. «Negli anni ‘90, quando ero direttore artistico per il teatro del Festival di Salisburgo, presentati l’allestimento di Deborah Warner, con Fiona Shaw nel ruolo di Riccardo. Funzionava benissimo. Riccardo II è stato un re molto particolare: era bisessuale, e si comportava come un sovrano assoluto. Pensava di essere l’unto di Dio e credeva veramente di poter fare qualsiasi cosa».

Ma il dramma è noto anche per la sua struttura. «È estremamente affascinante — spiega il Maestro — ci sono delle forme retoriche meravigliose. È una caratteristica tipica del tempo, si trova soprattutto nelle tragedie e con i grandi personaggi politici». Questo però, complica notevolmente il lavoro degli attori. «Per interpretarlo bisogna lavorare sulle varie frasi e dar vita al sottotesto. L’attore deve appropriarsi di questa struttura e riempirla con il proprio cervello e con le emozioni». Solo così si può arrivare all’obiettivo che Stein non si stanca mai di ripetere: «Il regista dovrebbe sparire agli occhi del pubblico, tutti i movimenti e le parole dovrebbe essere così credibili, così organici, da sembrare scaturiti in quel momento dal pensiero degli attori». Ma con il Riccar do II è difficilissimo: «Forse ho sbagliato a proporre questo testo; recentemente ho fatto un altro laboratorio, su Pinter, e gli allievi sono riusciti a metterci qualcosa di loro. Qui invece devo ancora ripetere come interpretare ogni battuta, altrimenti non si capisce niente». Eppure la selezione è stata durissima. Al bando del Met hanno risposto in 423, di cui 60 sono stati convocati per i provini, per poi arrivare ai quindici ammessi al corso. «Fin dall’audizione, l’incontro con Stein è stato molto positivo — racconta Sara Putignano, nata in Puglia e diplomata all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica-Silvio D’Amico — è una persona schietta, senza peli sulla lingua, dice sempre quello che pensa. Naturalmente a volte la verità può essere dura, però sai che puoi aver fiducia in quel che dice». Conferma Elisabetta Scarano, romana, diplomata alla Scuola del Piccolo di Milano: «È stato un lavoro molto produttivo, che ci ha permesso di tirare fuori delle cose forti».

Con questo progetto si consolida il legame di Stein col Metastasio, avviato con l’ospitalità dei suoi Demoni di Dostoevskij, di dodici ore, e soprattutto con la coproduzione del Ritorno a casa , di Pinter. «È la prima volta che trovo un teatro italiano che si comporta regolarmente, facendo quel che si è concordato. Ci torno sempre volentieri, cercando di adattarmi ai mezzi a disposizione. Non è un teatro molto ricco ma molto professionale». Intanto, Stein continua a girare per il teatri più importanti del mondo. Ora è in partenza per il Bolshoi di Mosca, dove a luglio presenterà La Damnation de Faust di Berlioz, poi sarà alla Scala per il Don Carlo di Verdi. E anche all’estero non mancano spettacoli di prosa: ha da poco ha diretto L’ultimo nastro di Krapp di Beckett a Parigi e il Boris Godunov di Puskin a Mosca, sempre focalizzandosi sul testo. «Le lingue non sono un mistero», dice in perfetto italiano, mentre parla al telefono in tedesco e analizza con disinvoltura la lingua di Shakespeare. «Lavoro bene anche in francese, e ho studiato un po’ di russo. Ma dopo un po’ questi testi si imparano quasi a memoria. Anche a Mosca per il Boris Godunov c’erano molti giovani attori, che ormai hanno perduto la possibilità di recitare i versi di Puskin, quindi ho fatto un lungo lavoro su ogni parola. Erano sbalorditi e hanno incontrato grandi difficoltà. A me interessa sempre questo: il pubblico deve capire quello che si dice. Mi sembra evidente, ma a quanto pare, non lo è».

Gherardo Vitali Rosati

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