La strage di un popolo mite. Michele Sinisi e “La masseria delle allodole”

19 luglio 2018. Corriere Fiorentino.

Ci voleva un regista pugliese per soffermarsi su un dettaglio del titolo di quella “Masseria delle allodole”, portata al cinema dieci anni fa da Paolo e Vittorio Taviani, a partire dal romanzo di Antonia Arslan. “Solo in Puglia esiste la parola ‘Masseria’, credo che la scrittrice abbia rielaborato i racconti di suo nonno contaminandoli con i suoi ricordi della nutrita comunità armena di Bari, perché non esistono ‘masserie’ in Armenia”, dice Michele Sinisi, che da stasera presenta la sua versione teatrale del testo al Dramma Popolare di San Miniato (repliche fino al 25 luglio).

Così, la città che ha dato i natali ai Taviani, sceglie di omaggiare il lavoro dei due fratelli, a pochi mesi dalla scomparsa di Vittorio. Per portare sul grande schermo il romanzo vincitore del premio Stresa e finalista al Campiello, i due cineasti avevano scelto la Bulgaria, cercando il set ideale prima al confine con la Turchia, dove si svolge la storia, per poi finire a nord del paese, dove ricostruirono la casa del testo. “In questa dimora, all’inizio, regna una certa leggerezza, anche se è continuamente punzecchiata da quel che accade sullo sfondo. Io sono partito dalla lettura del romanzo, e dopo questo inizio avvincente, ho avuto serie difficoltà ad andare avanti”.

Perché dopo aver introdotto i suoi personaggi, l’autrice descrive minuziosamente il genocidio degli armeni, che avvenne nel 1915. “È stato il primo grande genocidio storia, sembra quasi la prova generale dell’Olocausto, avvenuto vent’anni dopo – dice il regista – i Giovani Turchi, che volevano modernizzare il Paese, hanno invece scelto di eliminare sistematicamente questo popolo mite e fantasticante, poiché temevano che potesse aprire la strada ai russi e farli entrare nel loro territorio”. Il numero di vittime fu altissimo. Non ci sono cifre certe ma l’ipotesi più accreditata è che siano morte oltre un milione di persone. Gli armeni maschi venivano prima mandati nei cosiddetti “battaglioni di lavoro”, nell’esercito turco, e poi uccisi. Ma ci fu anche un massiccio esilio verso la Siria, con marce forzate dove in centinaia di migliaia morirono per fame, per malattia o vennero uccisi.

“Fu una strage raccapricciante. La Arslan racconta prima il massacro dei maschi, senza distinzione di età: uomini, vecchi, bambini, tutti, fino all’ultimo. Poi il drammatico viaggio verso l’esilio, fra violenze e stupri”. Quando lo ha pubblicato, nel 2004, l’autrice aveva già 66 anni, e dopo una vita da docente universitaria, con quel romanzo faceva il suo esordio nella letteratura. Il successo fu planetario: tradotto in 21 lingue, portato subito al cinema, e presto arrivò il seguito, con La strada di Smirne. Ma come si può rappresentare tutto questo in teatro? “Ho cercato di mettere il pubblico difronte alla stessa esperienza che avevo avuto come lettore – dice Sinisi, che ha lavorato insieme a Francesco Maria Asselta per la drammaturgia e con Francesco Biancalani per la scenografia – all’inizio gli attori arrivano sul palco, e creano dei segni: degli oggetti prendono vita – come un crocifisso o un richiamo per le allodole – poi il pubblico assiste alla progressiva distruzione di tutto”. Nessuna violenza fisica, quindi, sulla scena. “È molto difficile in teatro rappresentare la violenza in maniera naturalistica, ma abbiamo trovato il modo di evocarla”.

E mentre le migrazioni, seppur con origini molto diverse, sono tornate tristemente di attualità “noi lasciamo che le cose vengano evocate dall’argomentazione, da quei dialoghi fra un rappresentante del Potere, interpretato da Ciro Masella, e un colonnello turco che invece si fa portatore di umanità, portato in scena da Marco Cacciola. È come se gli esseri umani, rivestendo ruoli politici, finissero per prendere posizioni inconsulte. ‘La banalità del male’ è sempre dietro l’angolo.

Anche l’amore, in questa storia, diventa tragedia. “La storia fra il soldato turco Djelal e l’armena Azniv, che assume un ruolo centrale nel film dei Taviani, in realtà è segnata da una distanza che supera quella che c’era fra i Capuleti e i Montecchi. Per questo ho voluto inserire alcune citazioni da Romeo e Giulietta”. Altro richiamo alla tragedia di Shakespeare viene proprio dall’allodola del titolo, al centro della celebre scena fra i due innamorati (“Era l’allodola, messaggera dell’alba/ non l’usignolo”). Ora, anche questa parola, come “masseria”, accompagna la fantasia degli artisti. “Ho voluto citare varie opere che ne parlano: da Baudelaire a San Francesco, da Shelley fino ovviamente al Bardo”.

Gherardo Vitali Rosati
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